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Un museo del fascismo?


Di Daniel Di Schuler

Troppi non capirebbero gli oggetti esposti. Cimeli del bel tempo andato, per chi pensa al fascismo come a una specie di social-democrazia illiberale. Simboli di una feroce dittatura, per chi accetta la vulgata post-resistenziale. In realtà, imbarazzanti prove di quell’ottusità nazionale che ci ha fatto credere a infinite panzane. Tra le prime, quella che voleva l’Italia del 1922 sull’orlo di una rivoluzione sovietica. Lo spettro che consegnò il potere a Mussolini e, nel contempo, un’idiozia. Quali “orde di rossi in agguato” si opposero alla marcia su Roma? Salvo isolati episodi, nessuna. Inevitabile, visto che quelle orde armate esistevano solo nelle paure della nostra borghesia. La stessa che convisse da subito con il regime. Instauratosi grazie alla violenza, ma che si consolidò 


altrimenti. L’OVRA e i tribunali speciali? Il 25 luglio 1943, quando Mussolini fu arrestato, si scoprì quanto poco valesse quell’apparato repressivo. Che perseguitò una minoranza di antifascisti, ma solo quella, mentre il consenso della maggioranza fu acquistato secondo le eterne ricette del populismo. Portando lo Stato sull’orlo del fallimento, ma dando un po’ di trippa a quasi tutti. Non ai lavoratori, i cui salari reali diminuirono durante tutto il ventennio. (No: non si stava meglio quando si stava peggio). Alla pletora di funzionari che fu assunta proprio dal fascismo. (E la nostra farraginosa burocrazia nasce così; altro che mussoliniana efficienza). Alle infinite categorie cui fu concesso questo o quel privilegio. Ai padroni del vapore cui il protezionismo consentì di fare affari 


favolosi. Sempre a spese dello Stato, s’intende, e senza che le nostre industrie dovessero investire. Diventando sempre meno efficienti (basta confrontare i dati della produzione di armi nel 1915-18 con quelli del 1940-43) mentre dovevano solo pagare bustarelle. Un fiume di denaro che finì nelle tasche dei gerarchi di ogni livello. In quella che fu anche una cleptocrazia di massa. Occasione di rifarsi una vita per gli antenati dei ciarlatani passati dal Bar Sport alla politica in questi anni. Degli a-fascisti e post-fascisti (la sindaca Raggi, da poco eletta, rifiutò di recarsi alle fosse Ardeatine. Ora si definisce antifascista. Quando si hanno profonde convinzioni ...) che ben rappresentano un paese che non ha mai fatto davvero i 



conti con il fascismo. Per Gobetti, la nostra autobiografia: sorto dalla nostra storia per come volevamo raccontarcela. Per Croce, però, solo un’invasione di Hyksos apparsi dal nulla e poi scomparsi nel nulla. Come abbiamo finito per voler credere. Tra una vuota celebrazione del 25 Aprile e l’altra. Fino a ritrovarci accanto alle teste rasate. Mentre non abbiamo fatto nulla per liberarci dal nostro personale fascismo. Quello che ci fa accettare i decreti sicurezza con la stessa indifferenza con cui furono accolte le leggi razziali. Quello che, per il resto, crede che lo Stato sia onnipotente e che tutto scenda dall’alto; che anela all'uomo del destino, padrone ma pure padre, che risolva ogni problema. Mentre ci ritroviamo a dire: “Il governo dovrebbe fare una legge”. Come se il Parlamento non ci fosse o non servisse. In una ripetizione, magari in bocca a dei sinceri democratici, di uno dei dogmi del fascismo. Che non può essere museificato perché ancora vivo. Nella parte più sciocca e vile di ognuno di noi.



Daniel Di Schuler



E' nato il 12 settembre 1964, Scrittore, Pittore e Scultore, conosciuto per i numerosi viaggi vive in un villaggio di pescatori vicino Fisterra. Il suo romanzo “Un'Odissea minuta” edito da Baldini e Castoldi è stato finalista del Premio Italo Calvino. E' scrivener c/o Baldini + Castoldi, Bertoner editore e Albe Edizioni. Il suo ultimo lavoro è “L'ora che il tempo dice” pubblicato da Ex Cogita.



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