flspress
ripropone la versione integrale di uno dei più noti e discussi –
ed a tutt'oggi più attualmente profetici – testi di Leonardo
Sciascia: “i professionisti dell'antimafia”, pubblicato il
10.1.1987 sul “Corriere della sera”.
La
lucidità analitica del Genio del grande recalmutano – riconosciuta
ad anni di distanza anche dalla moglie di Borsellino - si mantiene
intatta oggi ad oltre trent'anni di distanza insieme alla dirompenza
dello scritto.
I
professionisti dell'antimafia.
di
Leonardo Sciascia
dal
Corriere
della sera,
10 gennaio 1987
Autocitazioni,
da servire a
coloro che hanno corta memoria o/e lunga malafede e che appartengono
prevalentemente a quella specie (molto diffusa in Italia) di persone
dedite all'eroismo che non costa nulla e che i milanesi, dopo le
cinque giornate, denominarono « eroi della sesta»:
1)
« Da questo stato d'animo sorse, improvvisa, la collera. Il capitano
sentì l'angustia in cui la legge lo costringeva a muoversi; come i
suoi sottufficiali vagheggiò un eccezionale potere, una eccezionale
libertà di azione: e sempre questo vagheggiamento aveva condannato
nei suoi marescialli. Una eccezionale sospensione delle garanzie
costituzionali, in Sicilia e per qualche mese: e il male sarebbe
stato estirpato per sempre. Ma gli vennero nella memoria le
repressioni di Mori, il fascismo: e ritrovò la misura delle proprie
idee, dei propri sentimenti... Qui bisognerebbe sorprendere la gente
nel covo dell'inadempienza fiscale, come in America. Ma non soltanto
le persone come Mariano Arena; e non soltanto qui in Sicilia.
Bisognerebbe, di colpo, piombare sulle banche; mettere le mani
esperte nelle contabilità, generalmente a doppio fondo, delle grandi
e delle piccole aziende; revisionare i catasti. E tutte quelle volpi,
vecchie e nuove, che stanno a sprecare il loro fiuto (...), sarebbe
meglio se si mettessero ad annusare intorno alle ville, le automobili
fuoriserie, le mogli, le amanti di certi funzionari e confrontare
quei segni di ricchezza agli stipendi, e tirarne il giusto senso».
(Il
giorno della civetta,
Einaudi,
Torino, 1961).
2)
« Ma il fatto è, mio caro amico, che l'Italia è un così felice
Paese che quando si cominciano a combattere le mafie vernacole vuol
dire che già se ne è stabilita una in lingua... Ho visto qualcosa
di simile quarant'anni fa: ed è vero che
un fatto, nella grande e
nella piccola storia, se si ripete ha carattere di farsa, mentre nel
primo verificarsi è tragedia; ma io sono ugualmente inquieto». (A
ciascuno il suo,
Einaudi, Torino, 1966).
Il
punto focale.
Esibite queste credenziali che, ripeto, non servono agli attenti e
onesti lettori, e dichiarato che la penso esattamente come allora, e
nei riguardi della mafia e nei riguardi dell'antimafia, voglio ora
dire di un libro recentemente pubblicato da un editore di Soveria
Mannelli, in provincia di Catanzaro: Rubbettino. Il libro
s'intitola La
mafia durante il fascismo, e
ne è autore Christopher Duggan, giovane « ricercatore»
dell'Università di Oxford e allievo dì Denis Mack Smith, che ha
scritto una breve presentazione del libro soprattutto mettendone in
luce la novità e utilità nel fatto che l'attenzione dell'autore è
rivolta non tanto alla « mafia in sé» quanto a quel che « si
pensava la mafia fosse e perché»: punto focale, ancora oggi, della
questione: per chi - si capisce- sa vedere, meditare e preoccuparsi;
per chi sa andare oltre le apparenze e non si lascia travolgere dalla
retorica nazionale che in questo momento del problema della mafia si
bea come prima si beava di ignorarlo o, al massimo, di assommarlo al
pittoresco di un'isola pittoresca, al colore locale, alla
particolarità folcloristica. Ed è curioso che nell'attuale
consapevolezza (preferibile senz'altro - anche se alluvionata di
retorica - all'effettuale indifferenza di prima) confluiscano
elementi di un confuso risentimento razziale nei riguardi della
Sicilia, dei siciliani: e si ha a volte l'impressione che alla
Sicilia non si voglia perdonare non solo la mafia, ma anche Verga,
Pirandello e Guttuso.
Ma
tornando al discorso: non mi faccio nemmeno l'illusione che quei miei
due libri, cui i passi che ho voluto ricordare, siano serviti - a
parte i soliti venticinque lettori di manzoniana memoria (che non era
una iperbole a rovescio, dettata dal cerimoniale della modestia
poiché c'è da credere che non più di venticinque buoni lettori
goda, ad ogni generazione un libro) - siano serviti ai tanti,
tantissimi che l'hanno letto ad apprender loro dolorosa e in qualche
modo attiva coscienza del problema: credo i più li abbiano letti,
per così dire, « en touriste», allora; e non so come li leggano
oggi. Tant'è che allora il « lieto fine» - e se non lieto
edificante - era nell'aria, per trasmissione del potere a quella
cultura che, anche se marginalmente, lo condivideva: come nel film In
nome della legge, in
cui letizia si annunciava nel finale conciliarsi del fuorilegge alla
legge.
Ed
è esemplare la vicenda del dramma La
mafia di
Luigi Sturzo. Scritto, nel 1900, e rappresentato in un teatrino di
Caltagirone, non si trovò, tra le carte di Sturzo, dopo la sua
morte, il quinto atto che lo, completava; e lo scrisse Diego Fabbri,
volgarmente pirandelleggiando e, con edificante conclusione.
Ritrovati più tardi gli abboni di Sturzo per, il quinto atto, si
scopriva la ragione per cui la « pièce» era stata dal, suo autore
chiamata dramma (il che avrebbe dovuto essere per Fabbri,
avvertimento e non a concluderla col trionfo del bene): andava a
finir, male e nel male, coerentemente a quel che don Luigi Sturzo
sapeva e, vedeva. Siciliano di Caltagirone, paese in cui la mafia
allora soltanto, sporadicamente sconfinava, bisogna dargli merito di
aver avuto, chiarissima nozione del fenomeno nelle sue articolazioni,
implicazioni e, complicità; e di averlo sentito come problema
talmente vasto, urgente e, penoso da cimentarsi a darne un «
esempio» (parola cara a san Bernardino), sulla scena del suo
teatrino. E come poi dal suo Partito Popolare sia, venuta fuori una
Democrazia Cristiana a dir poco indifferente al, problema, non è
certo un mistero: ma richiederà, dagli storici, un'indagine e
un'analisi di non poca difficoltà. E ci vorrà del tempo; almeno
quanto ce n'è voluto per avere finalmente questa accurata, indagine
e sensata analisi di Christopher Duggan su mafia e fascismo.
Nel
primo fascismo. idea,
e il conseguente comportamento, che il primo fascismo ebbe nei
riguardi della mafia, si può riassumere in una specie di sillogismo:
il fascismo stenta a sorgere là dove il socialismo è debole: in
Sicilia la mafia è già fascismo. Idea non infondata, evidentemente:
solo che occorreva incorporare la mafia nel fascismo vero e proprio.
Ma la mafia era anche, come il fascismo, altre cose. E tra le altre
cose che il fascismo era, un corso di un certo vigore aveva l'istanza
rivoluzionaria degli ex combattenti dei giovani che dal Partito
Nazionalista di Federzoni per osmosi quasi naturale passavano al
fascismo o al fascismo trasmigravano non dismettendo del tutto
vagheggiamenti socialisti ed anarchici: sparute minoranze, in
Sicilia; ma che, prima facilmente conculcate, nell'invigorirsi del
fascismo nelle regioni settentrionali e nella permissività e
protezione di cui godeva da parte dei prefetti, dei questori, dei
commissari di polizia e di quasi tutte le autorità dello Stato;
nella paura che incuteva ai vecchi rappresentanti dell'ordine (a quel
punto disordine) democratico, avevano assunto un ruolo del tutto
sproporzionato al loro numero, un ruolo invadente e temibile.
Temibile anche dal fascismo
stesso che - nato nel Nord in rispondenza
agli interessi degli agrari, industriali e imprenditori di quelle
regioni e, almeno in questo, ponendosi in precisa continuità agli
interessi « risorgimentali» - volentieri avrebbe fatto a meno di
loro per più agevolmente patteggiare con gli agrari siciliani e
quindi con la mafia. E se ne liberò, infatti, appena, dopo lì
delitto Matteotti, consolidatosi nel potere: e ne fu segno definitivo
l'arresto di Alfredo Cucco (figura del fascismo isolano, di linea
radical-borghese e progressista, per come Duggan e Mack Smith lo
definiscono, che da questo libro ottiene, credo giustamente, quella
rivalutazione che vanamente sperò di ottenere dal fascismo, che
soltanto durante la repubblica di Salò lo riprese e promosse nei
suoi ranghi).
Nel
fascismo arrivato al potere, ormai sicuro e spavaldo, non è che
quella specie di sillogismo svanisse del tutto: ma come il fascismo
doveva, in Sicilia, liberarsi delle frange « rivoluzionarie» per
patteggiare con gli agrari e gli esercenti delle zolfare, costoro
dovevano - garantire al fascismo almeno l'immagine di restauratore
dell'ordine - liberarsi delle frange criminali più inquiete e
appariscenti.
Le
guardie del feudo. E
non è senza significato che nella lotta condotta da Mori contro la
mafia assumessero ruolo determinante i campieri (che Mori andava
solennemente decorando al valor civile nei paesi "mafiosi"):
che erano, i campieri, le guardie del feudo, prima insostituibili
mediatori tra la proprietà fondiaria e la mafia e, al momento della
repressione di Mori, insostituibile elemento a consentire
l'efficienza e l'efficacia del patto.
Mori,
dice Duggan, « era per natura autoritario e fortemente
conservatore», aveva « forte fede nello Stato», « rigoroso senso
del dovere». Tra il '19 e il '22 si era considerato in dovere di
imporre anche ai fascisti il rispetto della legge: per cui subì un
allontanamento dalle cariche nel primo affermarsi del fascismo, ma
forse gli valse - quel periodo di ozio - a scrivere quei ricordi
sulla sua lotta alla criminalità in Sicilia dal sentimentale titolo
di Tra
le zagare, oltre
che la foschia che certamente contribuì a farlo apparire come l'uomo
adatto, conferendogli poteri straordinari, a reprimere la virulenta
criminalità siciliana.
Rimasto
inalterato il suo senso del dovere nei riguardi dello Stato, che era
ormai lo Stato fascista, e alimentato questo suo senso del dovere da
una simpatia che un conservatore non liberale non poteva non sentire
per il conservatorismo in cui il fascismo andava configurandosi,
l'innegabile successo
delle sue operazioni repressive (non c'è, nei
miei ricordi, un solo arresto effettuato dalle squadre di Mori in
provincia di Agrigento che riscuotesse dubbio o disapprovazione
nell'opinione pubblica) nascondeva anche il giuoco di una fazione
fascista conservatrice e di un vasto richiamo contro altra che
approssimativamente si può dire progressista, e più debole.
Sicché
se ne può concludere che l'antimafia è stata allora strumento di
una fazione, internamente al fascismo, per il raggiungimento di un
potere incontrastato e incontrastabile. E incontrastabile non perché
assiomaticamente incontrastabile era il regime - o non solo: ma
perché talmente innegabile appariva la restituzione all'ordine
pubblico che il dissenso, per qualsiasi ragione e sotto qualsiasi
forma, poteva essere facilmente etichettato come « mafioso». Morale
che possiamo estrarre, per così dire, dalla favola
(documentatissima) che Duggan ci racconta. E da tener presente:
l'antimafia come strumento di potere. Che può benissimo accadere
anche in un sistema democratico, retorica aiutando e spirito critico
mancando.
E
ne abbiamo qualche sintomo, qualche avvisaglia. Prendiamo, per
esempio, un sindaco che per sentimento o per calcolo cominci ad
esibirsi - in interviste televisive e scolastiche, in convegni,
conferenze e cortei - come antimafioso: anche se dedicherà tutto il
suo tempo a queste esibizioni e non ne troverà mai per occuparsi dei
problemi del paese o della città che amministra (che sono tanti, in
ogni paese, in ogni città: dall'acqua che manca all'immondizia che
abbonda), si può considerare come in una botte di ferro. Magari
qualcuno molto timidamente, oserà rimproverargli lo scarso impegno
amministrativo; e dal di fuori. Ma dal di dentro, nel consiglio
comunale e nel suo partito, chi mai oserà promuovere un voto di
sfiducia, un'azione che lo metta in minoranza e ne provochi la
sostituzione? Può darsi che, alla fine, qualcuno ci sia: ma correndo
il rischio di essere marchiato come mafioso, e con lui tutti quelli
che lo seguiranno. Ed è da dire che il senso di questo rischio, di
questo pericolo, particolarmente aleggia dentro la Democrazia
Cristiana: « et pour cause», come si è tentato prima dl spiegare.
Questo è un esempio ipotetico.
Ma
eccone uno attuale ed effettuato. Lo si trova nel « notiziario
straordinario n. 17» (10 settembre 1986) del Consiglio Superiore
della Magistratura. Vi si tratta dell'assegnazione del posto di
Procuratore della Repubblica a Marsala al dottor Paolo Emanuele
Borsellino e dalla
motivazione con cui si fa proposta di
assegnargliela salta agli occhi questo passo: "Rilevato, per
altro, che per quanto concerne i candidati che in ordine di
graduatoria precedono il dott. Borsellino, si impongono oggettive
valutazioni che conducono a ritenere, sempre in considerazione della
specificità del posto da ricoprire e alla conseguente esigenza che
il prescelto possegga una specifica e particolarissima competenza
professionale nel settore della delinquenza organizzata in generale e
di quella di stampo mafioso in particolare, che gli stessi non siano,
seppure in misura diversa, in possesso di tali requisiti con la
conseguenza che, nonostante la diversa anzianità di carriera, se ne
impone il "superamento" da pane del più giovane
aspirante".
Per
far carriera. Passo
che non si può dire un modello di prosa italiana, ma apprezzabile
per certe delicatezze come « la diversa anzianità», che vuoi dire
della minore anzianità del dottor Borsellino, e come quel «
superamento», (pudicamente messo tra virgolette), che vuoi dire
della bocciatura degli altri, più anziani e, per graduatoria, più
in diritto di ottenere quel posto. Ed è impagabile la chiosa con cui
il relatore interrompe la lettura della proposta, in cui spiega che
il dottor Alcamo -che par di capire fosse il primo in graduatoria - è
« magistrato di eccellenti doti», e lo si può senz'altro definire
come « magistrato gentiluomo», anche perché con schiettezza e
lealtà ha riconosciuto una sua lacuna « a lui assolutamente non
imputabile»: quella di non essere stato finora incaricato di un
processo di mafia. Circostanza « che comunque non può essere
trascurata», anche se non si può pretendere che il dottor Alcamo «
piatisse l'assegnazione di questo tipo di procedimenti, essendo
questo modo di procedere tra l'altro risultato alieno dal suo
carattere». E non sappiamo se il dottor Alcamo questi apprezzamenti
li abbia quanto più graditi rispetto alta promozione che si
aspettava.
I
lettori, comunque, prendano atto che nulla vale più, in Sicilia, per
far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di
stampo mafioso. In quanto poi alla definizione di « magistrato
gentiluomo», c'è da restare esterrefatti: si vuol forse adombrare
che possa esistere un solo magistrato che non lo sia?
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.