Quest'anno
ricorrono i 50 anni dalla pubblicazione – era il 25 luglio del 1968
– dell'Enciclica Humanae Vitae di Papa Paolo VI, che, come i più
sapranno, condensa, nei suoi 31, brevi capitoli, una magistrale ed
insuperata sintesi degli insegnamenti morali della Chiesa Cattolica
su temi che vanno dalla pratica della castità coniugale, da
iscriversi sapientemente nel quadro di una mutua relazione di grazia
che ha origine e fondamento nel vincolo sacramentale del matrimonio,
all'esercizio responsabile e libero della genitorialità, nella cui
trasparenza cogliere la ratio prima ed ultima delle dinamiche
sessuali di coppia; dalla liceità del ricorso ai metodi di
regolazione naturale della fertilità, resi oggetto di un giudizio
informato ad una concezione antropologica che fonda da sempre il
magistero universale ordinario della Chiesa in materia morale, agli
effetti molteplici, crescenti, per molti versi esiziali, legati al
diffondersi su scala globale di una mentalità contraccettiva. Si
sarebbe portati a dimostrare la verità degli insegnamenti contenuti,
in ordine a detti temi, in questa Enciclica muovendo esclusivamente
dall'analisi storica delle reazioni che essa fin dall'origine ha
generato. A dire che, se da sempre la Chiesa è stata chiamata ad
essere “segno di contraddizione” agli occhi di popoli e di ere
accecati da un attaccamento idolatrico alla cose ed alla mentalità
del mondo, l'eroicità inconcussa del μάρτυς, del testimonio
immarcescibile, è esattamente ciò che si può cogliere guardando al
travaglio intimo e, al contempo, alla serena e lucida fermezza
conservata, nel tempestoso iter che portò
all'elaborazione prima e
alla promulgazione poi dell'Humanae Vitae, da parte di Paolo VI.
Detto iter ebbe inizio nel 1963, quando Giovanni XXIII decise di
istituire una "Commissione pontificia per lo studio della
popolazione, della famiglia e della natalità", col compito di
ricercare e proporre soluzioni circa la possibile conciliazione
dottrinale tra la morale tradizionale cattolica in materia sessualità
coniugale e le tecniche di regolazione delle nascite. La vulgata
neomaltusiana, particolarmente in voga all'epoca – siamo alle
soglie del '68, del decennio cioè che avrebbe rivoluzionato, su
scala globale, costumi, abitudini e forma mentis di intere
generazioni– aveva permeato potentemente le agende e la
comunicazione istituzionale dell'ONU e di altre organizzazione non
governative come l'International Planned Parenthood Federation,
veicolando il consunto, allarmistico proclama circa la crescita
esponenziale e fuori controllo della popolazione, e agitando lo
spauracchio di sempre, l'incapacità del pianeta di rigenerarsi e
garantire una copertura alimentare per tutti. Da qui l'interesse
anche da parte del Papa e delle gerarchie vaticane per questi temi,
che si sarebbe sostanziato nella creazione della Commissione già
menzionata, voluta da Giovanni XXIII. Lo studio operato da parte di
questa sarebbe proseguito fino al 1966 quando la Commissione
consegnava l’esito dei lavori, che veniva tuttavia secretato in
attesa delle decisioni di Paolo VI, nel frattempo assurto al soglio
pontificio. Ma, prima di conoscere il parere del Pontefice,
nell’aprile del 1967, venivano riportati sulle principali testate
internazionali i risultati delle votazioni finali avvenute in senso
alla medesima Commissione. Si racconta dell'esistenza di due pareri
contrastanti, uno favorevole al riconoscimento della liceità morale
della "pillola contraccettiva", approvato con 70 voti, e
uno contrario, approvato con soli 4 voti, versione tuttavia mai
confermata ufficialmente. Paolo VI, allora decise di giocare un'altra
mossa, che sarebbe stata decisiva e dirimente. Incaricava prima la
Congregazione della dottrina della fede, che avrebbe lavorato al
testo dal giugno del ’66 fino alla fine del ’67, e poi la
Segreteria di Stato, che invece avrebbe operato sullo stesso fino
alla metà del ’68. L'obiettivo era quello di approfondire
il caso,
ascoltando il parere autorevole di nuovi esperti: il materiale
complessivamente raccolto sarebbe alla fine servito a Paolo VI per
scrivere e pubblicare l'Humanae vitae. L'Enciclica si apre accennando
ad un nodo cardine dell'articolata e sistematica riflessione condotta
da Paolo VI, quello cioè relativo al «gravissimo dovere di
trasmettere la vita umana, per il quale gli sposi sono liberi e
responsabili collaboratori di Dio creatore» (Humanae Vitae, n. 1),
aspetto che fin da subito viene posto in connessione con una serie di
nuove, urgenti questioni che l'evolversi della società ha generato e
che «la Chiesa non può ignorare» (Ibidem). Tali urgenze, a detta
del Pontefice, attengono: 1) alla rapidità dello sviluppo
demografico che porta con sé tentazioni di controllo biopolitico
della crescita delle popolazioni da parte dei governi nazionali e
degli organismi internazionali; 2) all'accresciuta esigenza di
regolare le nascite all'interno dei singoli nuclei familiari, col
fine di garantire condizioni di vita migliori alle nuove generazioni;
3) agli scenari inediti venuti a configurarsi in seguito ai nuovi
ruoli sociali riconosciuti alle donne e alla mutata considerazione
culturale delle stesse che ne è derivata; 4) alla straordinaria
ampiezza e profondità dei progressi compiuti dall'uomo quanto al
dominio razionale ed organizzazionale delle forze della natura, per
mezzo dell'ausilio della tecnica. A fronte di tali, epocali sfide si
facevano sempre più pressanti le domande volte a questionare la
validità di norme morali la cui efficacia pareva messa in
discussione dall'accresciuta difficoltà a garantirne, nei mutati
contesti culturali e sociali, una reale osservanza, «dato
l'accresciuto senso di responsabilità dell'uomo moderno, [che induce
a chiedersi se] non sia venuto il momento di affidare alla sua
ragione e alla sua volontà, più che ai ritmi biologici del suo
organismo, il compito di trasmettere la vita» (HV, n. 2). Domande,
quindi, che, come si può facilmente intuire, mettevano in dubbio la
validità della stessa «dottrina morale del matrimonio, dottrina
fondata sulla legge naturale e arricchita dalla rivelazione divina»
(HV, n. 3). Solo nella profondità di tale respiro metafisico, si può
dare infatti contezza piena della valenza
soprannaturale del
matrimonio cristiano, «sapientemente e provvidenzialmente istituito
da Dio creatore per realizzare nell'umanità il suo disegno di amore.
Per mezzo della reciproca donazione personale, loro propria ed
esclusiva, gli sposi tendono alla comunione delle loro persone, con
la quale si perfezionano a vicenda, per collaborare con Dio alla
generazione ed educazione di nuove vite» (HV, n. 8. Vengono,
all'interno di questi passi ispirati, sapientemente condensati i
gangli della dottrina cristiana sul matrimonio, la cui singolare
importanza, nell'economia complessiva degli strumenti di
santificazione e salvezza messi a disposizione dell'uomo, si evince
oltre che dal numero e dall'ampiezza dei passi biblici che ad esso
espressamente si riferiscono, anche dal fatto che Cristo stesso lo
avrebbe innalzato alla dignità di sacramento, ovvero di segno
tangibile, efficace ed immanente della sua Grazia trascendente e
salvifica, che la Chiesa è chiamata a dispensare per mezzo di
ministri le cui funzioni, in questa specialissima fattispecie,
vengono assolte dagli stessi nubendi. Ora, la finalità
costitutivamente propria dell'espressione corporea della loro
sessualità, è data dalla fecondità potenziale di un atto di amore
che è strutturalmente aperto all'esistenza di chi non è ancora,
alla generazione cioè di una nuova vita. L'apertura alla
procreazione è cioè una componente intenzionale coessenziale
dell'atto coniugale, dal momento che la stessa unione genitale degli
sposi è finalizzata intrinsecamente alla comunicazione della vita,
come donazione integrale e reciproca che gli stessi sono chiamati ad
attuare. A dire che l'unione carnale dei coniugi non è mai un
incontro situabile solo a livello biologico, perché la sua fecondità
simbolica permane immutata a prescindere dall'effettivo avvio di un
processo fisiologico che porterà alla generazione di una nuova vita.
La procreazione responsabile è, piuttosto, deliberata apertura alla
vita da parte dei coniugi che si donano nella loro totalità e
proseguono questa donazione d'amore prolungandone gli effetti
nell'assolvimento congiunto del compito educativo. Portato fuori dal
contesto
dell'amore coniugale, pertanto, l'atto riproduttivo
smarrisce la sua dignità di atto nel quale gli sposi cooperano al
disegno di Dio nella creazione di una nuova vita, perde cioè la sua
profondità e consistenza propriamente sponsale. La mediazione
corporea, infatti, interrompe il nesso di causalità tra decisione
procreativa e nascita di una nuova vita e apre simbolicamente al
mistero di una vita “altra” rispetto a quella dei genitori,
alterità che, a prescindere dalla sola concatenzione biologica degli
eventi unitivi, è insieme indice e cifra della sua dignità
singolare, ineludibile e irripetibile, in una parola della sua
dignità personale. E solo in una prospettiva personalista siffatta
possiamo finalmente cogliere la fisionomia originaria e propria
dell'atto coniugale. È questo il significato profondo che emerge dal
tessuto argomentativo dell'Humane Vitae, confermato, tra l'altro,
nella pienezza della sua valenza dottrinale, dalla Familiaris
Consortio: tra i due significati dell'atto coniugale, unitivo e
procreativo, vi è una implicazione reciproca, nel senso che l'unità
tra i coniugi sarà piena solo se vi sarà una contestuale
disponibilità ad accogliere una nuova vita: «Salvaguardando ambedue
questi aspetti essenziali, unitivo e procreativo, l'atto coniugale
conserva integralmente il senso mutuo e vero amore ed il suo
ordinamento all'altissima vocazione alla paternità» (HV, n. 12).
Innestare il contributo unitivo dei coniugi in una progettualità che
li comprende e li supera infinitamente, significa far propria quella
concezione che vede il figlio come un dono, la determinazione delle
cui fattezze, non solo somatiche, mai potrà dirsi nella
disponibilità esclusiva dei genitori, che dunque sono una volte per
tutte chiamati ad uscire dalla logica dell'attuazione di un “progetto
generativo”, attraverso il quale poter dare concretezza ai loro
deliberati desideri procreativi. La paternità responsabile non è
infatti attuazione rigida e fredda di un'attività programmatica
–come accade, ad esempio, nella messa in atto di un progetto
procreativo che domandi l'ausilio delle tecnica in fase di
fecondazione, sia essa omologa od eterologa– ma è piuttosto
l'assenso prestato ad un compito che chiede “cor-responsabiltà”:
la scelta di avere un figlio non è mai solo una
conseguenza
esclusiva e diretta della decisione generativa dei coniugi, ma quando
si affida alla mediazione dell'unione corporea propria dell'atto
coniugale, accetta di sostanziarsi in una forma di adesione ad un
progetto previo, ad un precedente disegno nel quale i coniugi
scelgono di entrare liberamente, ma il cui contributo non esaurisce
completamente. È in questo senso allora che ogni tentativo messo in
campo dai coniugi con il fine specifico di alterare l'incedere
fisiologicamente proprio di un processo generativo, non può non
esser visto come un'interferenza indebita nei dinamismi attuativi di
una simile progettualità trascendente: è da escludersi dunque la
liceità morale di qualsiasi azione che, «o in previsione dell'atto
coniugale, o nel suo compimento, o nello sviluppo delle sue
conseguenze naturali, si proponga, come scopo o come mezzo, di
impedire la procreazione» (HV, n. 14). La fisiologica potenzialità
procreativa dell’unione coniugale è un bene così intimamente
radicato nei dinamismi di coppia e nella natura amorosa dei suoi
rapporti che, pur in presenza di altri requisiti dell’amore
coniugale, il suo impedimento contraccettivo non può essere ottenuto
senza una simultanea ferita alla dignità delle loro persone e
all’integrità dei significati oblativo e unitivo del rapporto,
integrità che, sola, lo rende autenticamente umano. Nella sua
originaria “verità”, infatti, la sessualità sponsale parla il
linguaggio della reciproca donazione e dell'accoglienza totale (“io
mi dono totalmente a te e ti accolgo totalmente”), mentre nel
dispiegarsi dell'artificio contraccettivo viene costretta parlare un
linguaggio ad essa estraneo, il linguaggio delle reciproca negazione
(“non mi dono totalmente e non ti accolgo totalmente”). Il
riconoscimento auto-osservativo della fertilità femminile,
ciclicamente ricorrente, è che alle coppie desiderose di avere un
figlio rende possibile lo svolgimento mirato della sessualità nel
periodo fertile del ciclo e alle coppie bisognose, per gravi ed
ineludibili ragioni, di dovervi rinunciare, mediante il suo
svolgimento elettivo nei periodi fisiologicamente non fertili della
donna, rende possibile la salvaguardia della pienezza dei loro atti
coniugali, che sarebbe viceversa violata dal ricorso alle pratiche
contraccettive. Un esercizio rispettoso della propria e altrui
fertilità, da parte di ogni coniuge, all'interno di ogni singolo
atto coniugale, realizza la virtù della castità sponsale,
disposizione morale capace di richiamare i protagonisti all'esercizio
congiunto di tutte le virtù veramente necessarie alla vita
matrimoniale colta nel suo insieme, oggi
radicalmente messa in
discussione tanto dal ricorso sfrenato ad una sessualità di coppia
che ha sempre più i tratti della megalomania pornografica, quanto
dal ricorso alle tecniche di manipolazioni non terapeutiche della
fisiologia procreativa. La pratica dell'astensione dalla sessualità
tra i coniugi nei periodi fecondi, in nessun caso può essere
assimilata alla decisione di una sessualità deliberatamente
deprivata della sua connaturale apertura alla vita: vero è che in
entrambi i casi i coniugi perseguono l'obiettivo di evitare una
gravidanza, ma solo nel primo, la gravità obiettiva dei motivi che
si accompagna a tale scelta domanda che essa si sostanzi
nell'astensione completa dai rapporti nei periodi fecondi, per
continuare a fruire, nei periodi ciclicamente infertili, di quella
che costituisce una componente intimamente necessaria alle dinamiche
dell'amore coniugale, l'esercizio responsabile e rispettoso della
sessualità appunto. Nel caso del ricorso alle metodiche
contraccettive, invece, in nessun momento vengono considerate le
esigenze: 1) della continenza periodica, da iscriversi nel più ampio
quadro della castità coniugale; 2) dell'astensione dal ricorso ad un
uso strumentale della medesima componente sessuale; 3) della rinuncia
ad interferire nell'incedere fisiologico delle naturali dinamiche
delle sessualità coniugale, aspetti tutti che, al contrario, nella
pratica dell'astensione dai rapporti matrimoniali nei periodi
fertili, vengono pedissequamente osservati ed onorati. È per questo
che «i due casi differiscono profondamente tra di loro: nel primo i
coniugi usufruiscono legittimamente di una disposizione naturale;
nell'altro caso impediscono lo svolgimento dei processi naturali»
(HV, n. 16). Parlare allora dei beni della castità, matrimoniale e
non, della indisgiungibilità del momento unitivo e procreativo
dell'atto sessuale coniugale, della regolazione naturale della
fertilità di coppia, come di virtù morali naturali, significa
leggerne l'essenza alla luce non solo della ragione pratica che,
illuminata dalla fede, può coglierne il senso autentico, ma anche
appurarne il loro essere naturalmente preordinate a favorire lo
sviluppo umano integrale di ogni persona, così come il dispiegarsi
in pienezza della donatività reciproca ed incondizionata sottesa
all'esistenza del vincolo sponsale, beni che sono tali agli occhi di
ogni ragione che voglia dirsi tale, che non voglia cioè ingannarsi
deliberatamente. Uno stile di
vita coniugale ispirato ad un simile
esercizio virtuoso della sessualità sponsale non solo agevola
l’edificazione serena e fruttuosa della primordiale cellula di ogni
società umana, qual è la famiglia nucleare, ma fa sì anche che i
suoi benefici effetti si estendano agli altri ambiti della vita di
relazione, propiziando la realizzazione di un altro sogno vagheggiato
dalla visionarietà profetica di Paolo VI, quello dell'instaurazione
di una “civiltà dell'amore” che sola potrà rendere la città
terrena ad immagine di quella celeste.
L'eclissi lenta,
progressiva, inesorabile di una cultura della sessualità coniugale
ultimamente fondata sull'antropologia cristiana della castità
sponsale, i cui tratti precipui abbiamo cercato di sbozzare fin qui,
ha prodotto la diffusione, ormai su scala globale, della cosiddetta
“mentalità contraccettiva”, intendendosi, con questa locuzione,
un modello culturale che ha realizzato una serie interminabile di
esiziali effetti a catena, che vanno dall'aborto alla banalizzazione
della sessualità con conseguenti ricadute sulla moralità dei
singoli come delle collettività nel loro insieme; dalle violenze a
sfondo sessuale alla strumentalizzazione della donna; dalla
pornografia all'adozione sempre più massiccia di soluzioni
biopolitiche di controllo delle nascite; dalle distruzione
dell'unione matrimoniale e della famiglia, con conseguente aumento
del numero dei divorzi ai casi di marginalizzazione sociale delle
fasce più deboli. Tutto questo dimostra inequivocabilmente come
l'inquietudine di Paolo VI, la sua insonne ansia di sventare la
minaccia dell'irrompere sulla scena sociale mondiale di una mentalità
siffatta, al costo pure di tante sofferenze, umiliazioni,
incomprensioni, era nient'altro che la mesta prefigurazione, il
triste presagio di una rivoluzione antropologica che di lì a poco
avrebbe subdolamente offerto a generazioni e popoli i suoi
ingannevoli frutti di distruzione e di morte. Da qui la sua profetica
insistenza sull'integrità ed integralità del messaggio che la
Chiesa doveva continuare a trasmettere, senza lasciarsi influenzare
dal carattere radicale e polemico della montatura mediatica che di lì
a poco l'avrebbe investita, ma anzi ribadendo che la sua vocazione ad
essere “segno di contraddizione”, e dunque non cessando per un
istante dalla sua missione «di proclamare con serena fermezza tutta
la legge morale, sia naturale che evangelica. Di essa la Chiesa non è
stata autrice, né può quindi esserne arbitra; ne è soltanto
depositaria ed interprete», e come tale essa sola è in diritto di
reclamare il suo ruolo di sempre, quello di «amica sincera e
disinteressata degli uomini che vuole aiutare, fin dal loro
itinerario terrestre, “a partecipare come figli alla vita del Dio
vivente, Padre di tutti gli uomini”» (HV, n. 18).
Antonio
Casciano, Elio Card. Sgreccia.
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