Daniel Di Schuler
Alla domanda degli inquirenti, hanno preferito non rispondere. Forse per non aggravare la propria posizione. Forse perché quando uccidi qualcuno a quel modo non puoi dire proprio niente. Il resto è nelle loro foto che circolano in rete. Tatuati, palestrati e addestrati. Soprattutto vigliacchi. Come possono esserlo quattro che si mettono a pestare un ragazzo. Specie sei i quattro sono dei picchiatori abituati agli scontri, che cercano gli scontri, e il ragazzo è un ventenne che passa le giornate a lavorare. Come faceva la vittima, Willy Monteiro Duarte. Un italo-capoverdiano, precisano i giornali, quasi a confermare che ancora non ci siamo abituati a dei neri che sono italiani e basta. Nati altrove, o da genitori venuti da lontano, ma non per questo diversi da noi. O non così diversi da doverlo sottolineare anche nei titoli. Senza per questo voler introdurre l’elemento razziale. Il compito di stabilire se il
colore della pelle di Willy abbia contato, resta alla magistratura. Quella che, però, non potrà processare i complici di quei massacratori. I loro mandanti morali. Gli apostoli della violenza; di un’idea demente di virilità. In un paese dove teste rasate, svastiche e saluti romani sono ormai parte del paesaggio. Tipici come le tovaglie a quadretti delle pizzerie per turisti. Mentre le forze dell’ordine assistono impassibili alle sfilate neofasciste, prima d’infierire sui terribili vu’cumprà, con i loro tappetini e le loro pericolosissime cianfrusaglie. Che possono creare allarme solo in una società che ha perso il lume della ragione. Quella che si sentiva rassicurata da un butirroso ministro degli Interni che si faceva fotografare abbracciato
agli ultrà. A personaggi non troppo diversi dagli assassini di Willy. Nella perfetta rappresentazione di un’Italia che va a rovescio. O che andava, considerata l’indignazione provocata dalla morte di Willy. Una reazione che non potrà certo consolare i suoi genitori, cui va tutto il mio cordoglio, ma che mi fa sperare. Se non altro, di avere già toccato il fondo.
Daniel Di Schuler
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