Di Kathrin von Hohenstaufen
Innanzitutto vi è una inscindibilità oggettiva tra la persona e la vita, (e questo dovrebbe valere soprattutto per chi non crede in una vita dopo la morte, per cui l'identità è incatenata alla vita biologica ed alle opere terrene), e soprattutto è impossibile operare un sincero distinguo tra il giudizio che si emette sulla dignità di una certa condizione di vita ed il giudizio che si emette su chi accetta o sceglie quella condizione. Nell'accezione comune, che esplicita una percezione razionale con forte componente emotiva collettiva, trasversale al livello culturale, si dice "non ha dignità'" di persona che accetti condizioni di lavoro, economiche, di igiene, estetiche, di relazione estremamente pregiudizievoli. Questo stigmatizza che nella vita reale, e nella percezione integrata non riducibile alla schematizzazione del pensiero sillogistico, quando si dice che una certa situazione di vita non è dignitosa, si dice automaticamente che chi la vive non ha dignità, a meno che non vi si sottragga. Vieppiù, dare spazio ad un simile pregiudizio, fondato sull'elevazione di un limite cognitivo a dogma, (l'incapacità di riconoscere la dignità intrinseca di condizioni di vita dolorose viene trasformata in espressione di maturità culturale collettiva tra le più alte), proietta un cono d'ombra e un marchio di svalutazione sull'identità di chi ha attraversato una condizione dolorosa "non dignitosa" anche solo transitoria, sia che ella vi sopravviva, sia che ne muoia (di morte naturale o provocata). Anzi, come medico mi trovo tristemente a constatare, che l'ingresso della parola "dignità" nel gergo della discussione sulle scelte di fine vita, quasi unanimemente utilizzata solo in riferimento all'astensione dalle cure, e' carica di una forte connotazione suggestiva e giudicante "se avessi dignità non chiederesti altre cure" e "chi ha dignità non concede che le cure lo riducano in stato compassionevole". In altri termini, uno sguardo che giudichi non dignitosa una certa condizione di vita, non e' mai uno sguardo neutro sulla dignità di chi vive quella condizione. Altra cosa invece e' uno sguardo compassionevole o semplicemente maturo, che apportando valore affettivo dall'esterno e riconoscendo valore intrinseco ad una condizione di vita dolorosa, vada a vicariare con la considerazione umana, affettiva, e culturale non necessariamente trascendentale (ma per chi possiede questa attitudine anche metafisica o religiosa), o anche semplicemente con l'accettazione, il rischio di svalutazione dell'uomo che la sofferenza non accolta e alleviata comporta.
Questo approccio e' miope e monco. Miope in quanto ignora che la mente fa convergere dolore fisico e dolore esistenziale o morale in una unica dimensione di percezione integrata: per cui il dolore fisico aumenta se ci si sente svalutati, o in condizione di ingiustizia o di sottrazione di dignità; e viceversa, una situazione di dolore esistenziale o morale, considerata soggettivamente (e per inevitabile influenza esterna o collettiva) non dignitosa, può provocare la stessa sofferenza mentale e lo stesso desiderio di suicidio di una condizione di sofferenza fisica estrema. Quindi emettere il giudizio sulla vita non dignitosa, (e la concessione dell'eutanasia o suicidio assistito da parte di un collegio non tecnico ma legale è chiamato a fare anche questo), va a gravare sull'esperienza soggettiva della sofferenza. Monco in quanto disconosce la dignità di chi vivendola sceglie di apportare valore alla sofferenza. Questo non vuol dire mai, ovviamente, respingere la protesta del sofferente o omettere le cure palliative li' dove si parli di sofferenza fisica. Non temendo di debordare dai doveri di Cristiano, fino a poter essere da qualcuno accusata di non essere del tutto Cristiana, oso anche esprimere che non vedo un reale dislivello valoriale tra l'ateo che riconosca la sacralità della vita in quanto tale ed in quanto bene intangibile superiore alla fallacia del giudizio soggettivo e mutevole, ed il religioso che la riconosca sacra in quanto dono di Dio. Nel calare le considerazioni filosofiche nella vita reale, dove esse tendono ad essere travolte e mai salvaguardate a sufficienza, fino a scivolare il più delle volte nel dominio dell'astrazione, non si può non tener conto degli equilibri di forza e delle suggestioni collettive che condizionano il libero arbitrio individuale. La riduzione delle chances oggettive di accesso a cure palliative (o in generale alle cure in toto visti i tagli alla sanità, che significa mancanza di alterative concrete al suicidio), lo stato di fragilità emotiva e di debolezza esistenziale del sofferente che pone innumerevoli vulnerabilità e lo espone al rischio di abusi da chi si trova in condizione di forza, sono il tema principale della Sentenza della Corte Costituzionale sul Caso Cappato. Sentenza che parla quasi solo di questo, ed esprime urgenza quasi solo su questo, pur lasciando infine spazio ad un sottilissimo "si" quasi esclusivamente simbolico, con tali e tanti vincoli che nella pratica ha l'esclusiva utilità della via d'uscita d'emergenza in caso di netto accanimento terapeutico (per via delle nuove possibilità sanitarie e biomediche che consentono di tenere in vita persone con limitazioni fisiche che in passato conducevano alla morte). L'esperienza della solitudine nella
sofferenza fisica o morale -che per la loro inscindibilità vanno trattate con le cautele di un unicum per non raggiungere rapidamente lo scenario di concessione del suicidio assistito su domanda come risposta a qualsiasi sofferenza psicologica- la quale stravolge anche le convinzioni ordinarie e strutturali dell'individuo, ha bisogno di trovare nell'autentico impegno collettivo al sostegno di qualità, risposte di ordine terapeutico, culturale e spirituale che non possono prescindere da o recidere la tradizione plurisecolare. Persino nell'Antica Grecia e nel Confucianesimo, (e l'elenco include latitudini ed epoche estreme senza esclusione della modernità), il suicidio e' stato considerato come una realtà non neutrale e potenzialmente lesiva del diritto dell'individuo e degli interessi della società. Non da ultimo vorrei ricordare, sul tema esperienza del suicidio assistito, che esso comporta una tale frattura delle regole del sentire comune ed intimo, anche archetipiche, e dell'istinto di autopreservazione della vita, da lasciare nei sopravvissuti non solo del suicidio cruento, ma anche nei familiari di chi ha ottenuto suicidio assistito, percentuali più elevate di PTSD ed elaborazione disfunzionale del lutto. A dimostrazione del fatto che le conseguenze di tale apertura travalicano di molto qualsiasi semplificazione e dissezione filosofica apparentemente autosufficiente.
Kathrin von Hohenstaufen
Libero Professionista,
Haematologist, è stata Senior Fellow in Medical Oncology presso University of Southampton. Lavora a diversi Research project. Ha lavorato come Research fellow presso la University of Leeds, è stata Haematologist presso Oncology Institute of Southern Switzerland - Ente Ospedaliero Cantonale ed è stata Haematologist presso il Policlinico di Milano.
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